Gritti Venice

COME ERAVAMO

Care Clefs d’Or,

di questi tempi mi tornano in mente le parole dell’inno nazionale tedesco: wenn es stets zum Schutz und Stutze brüderlich zusammenhält… Questo è il nostro motto, quello che serve ora. Con la speranza che al più presto possiate tutti riprendere il vostro lavoro dopo questa infinita e insopportabile attesa, vi propongo un mio racconto su “Come eravamo”, già pubblicato sul Bollettino on line diversi anni fa. È lo spaccato di vita, personale, in tempi lontani, certo diversi da ora, ma comune allora a molti portieri d’albergo originari da quei piccoli paesi della pedemontana pordenonese come Aldo Giacomello del Beau Rivage di Genève, Mario Gambron del Principe di Savoia di Milano; Renzo Chiaranda del Grand Hotel di Roma, Natale Chiaranda dell’Europa & Regina di Venezia; Alfonso Chiaranda del Londra Palace di Venezia; Egidio Lis e Mario Varnier del Gritti di Venezia; Angelo Varnier del Due Torri di Verona e Sante Puppin del De la Poste di Cortina. Nel “Come eravamo” però non posso dimenticare i veneti Pino Buso, Paolo Dal Pos, Franco Borgarelli, Gianni Terrocin con i quali ho condiviso quegli anni

 

A scuola andavo controvoglia, dovevo fare venti chilometri in bicicletta tutti i giorni, odiavo il latino, non mi entrava proprio in testa. Papà pensò allora che forse era meglio se incominciavo a lavorare. Lui aveva passato la vita negli alberghi: a Venezia, ma anche a Napoli, al Sestriere e a Cernobbio. Chiese al direttore del Gritti, dove lavorava come dispensiere, se poteva farmi entrare come ragazzo di portineria. Avevo sedici anni. Fui assunto il primo giugno del 1953 e per me cambiava il mondo. Dall’ambiente rustico e frugale del piccolo paese di campagna della pedemontana friulana, alla città cosmopolita, in un albergo lussuoso. Dall’odore del fieno e della terra al salmastro della città di mare; il fruscio ovattato nei lunghi corridoi dell’albergo, i profumi ed il leggero odore di sigarette americane. Il primo giorno di servizio il direttore mi scrutò dalla testa ai piedi. Incuteva soggezione, era seduto al bar, vestito con un elegante abito chiaro, farfallino e monocolo. Papà aveva lavorato con lui al Grand Hotel a Venezia e all’Excelsior di Napoli. Conosceva papà da molto tempo. Mi diede un buffetto sulla guancia. Ero un raccomandato, voglio dire. A quei tempi la maggior parte del personale alberghiero, in tutti i reparti, era di provenienza friulana, anzi, da pochi paesi del pordenonese: Polcenigo, Budoia e Monterealevalcellina. Il primo portiere ed il secondo erano originari di là. Se poi ho fatto questo mestiere lo devo a loro, per tutto quello che da loro ho appreso. Il primo per la sua semplicità, ma con un grande talento nel rapporto con il cliente. Gli abituali clienti americani lo adoravano. Una pestifera e incontentabile cliente di origine russa, che abitava a Cap d’Ail, lo abbracciava e baciava quando arrivava. Era frugale e riservato, ma sensibile al fascino femminile e appassionato di corse di cavalli. Il secondo invece era di tutt’altro carattere, impetuoso e a volte irascibile, si scioglieva però al minimo complimento, parlava quattro lingue perfettamente e una grande personalità dietro il banco. La mia mansione, come si usava allora, era liftier, ascensorista. Dodici ore al giorno in due turni. Good morning, good afternoon, good evening. Su e giù, giù e su, in quella scatola per sei persone della Stigler-Otis Quando andavo su o giù dovevo sempre tenere con le mani, le porte a ventaglio dell’ascensore ben chiuse, dando le spalle ai clienti: arrivato al piano le aprivo e aprivo poi la porta esterna. Alla sera, il colletto duro e inamidato della divisa mi lasciava il segno, avevo i piedi indolenziti e gli insopportabili guanti bianchi acrilici erano sporchi, ma ero contento perché avevo in tasca un bel gruzzoletto di mance che tenevo assieme con l’elastico. Ricordo sempre quel signore americano con la barba, aveva la suite d’angolo al primo piano, chiese come mi chiamavo e mi diede una bella mancia. Era Ernest Hemingway. Ora le portinerie moderne funzionano diversamente: servono altre competenze, altri percorsi formativi, ma allora per andare avanti bisognava imparare a fare tante cose: il funzionamento del centralino, tra spinotti, levette e spie luminose colorate; le bollette per le interurbane tramite operatore da compilare. Il traffico telefonico a volte era infernale. Altro passaggio: fare per qualche periodo il turno di notte, dalle nove di sera alle otto del giorno dopo. Poi, dopo diversi anni di gavetta, potevi salire come turnante su quella pedana consunta alta una decina di centimetri, con la giacca aperta e la cravatta nera, dietro al banco, accanto a quelli che all’inizio sembravano irraggiungibili. Ho una foto un po’ ingiallita che mi ritrae assieme a loro, guardandola mi viene un po’ la nostalgia per quegli anni. Loro due ora non ci sono più, purtroppo. Non c’è più nemmeno il personale che veniva così numeroso da quei piccoli paesi della pedemontana friulana. Nuovi moderni distretti industriali hanno cambiato la vita di quel territorio. Adesso lì nessuno, ma proprio nessuno, lavora più nel ramo alberghiero. Mi fa pensare, anche se so che ciò non è vero, ora   qualcosa manchi, perché irrimediabilmente perduto.

Claudio Scandolo

 

 

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